IL BAMBINO PARLA MALE: DISTURBI DEL LINGUAGGIO

Disturbi nel linguaggio: come aiutare i piccoli di «poche parole» 
C’è il bambino che pronuncia male, quello che inverte le sillabe e quello ha difficoltà nella
comprensione. In ogni caso, però, il problema può essere superato
Articolo di Daniela Natali.
 
Che buffo quel bambino, ha detto «poto». Ma intendeva »topo». 
Sarebbe soltanto buffo, e del tutto normale, se il bambino non avesse già quattroanni. E sarebbe simpaticamente curioso anche il bambino che dice: «io contento no», «io mangiare male», oppure: «cosa stanno fanno?», se non avesse già sei anni. 
In questi casi, ci dicono i logopedisti, siamo in presenza di un «disturbo specifico del linguaggio» . Ne soffre il 3 per cento della popolazione. Niente a che vedere con la balbuzie e niente a che vedere con un quoziente intellettivo al di sotto della norma, o con una psicopatologia, o con un contesto sociale o familiare che non ha favorito lo sviluppo della parola. 
Spiega infatti Tiziana Rossetto, presidente della Federazione logopedisti italiani, l’associazione nata nel 1989 che raccoglie circa 3 mila soci: «I disturbi specifici del linguaggio sono proprio quello che dice il loro nome: in chi ne soffre non c’è patologia neurologica o deficit intellettivo, di percezione o di attenzione, nessun disturbo della sfera comportamentale, nessun danno organico all’apparato fonatorio. 
L’unica area colpita è quella della parola». 
Se si parla di disturbi al plurale vuole dire che ce ne sono di diversi?«Direi piuttosto che ci sono espressioni differenti dello stesso problema. C’è il bambino che pronuncia male, o non pronuncia del tutto, alcuni suoni che dovrebbero già essere presenti alla sua età, e quindi si «arrangia» con quelli che sa usare, rendendo però incomprensibile quello che dice. 
C’è il bambino che costruisce in modo alterato le parole, invertendo per esempio le sillabe. C’è chi ha un disturbo della comprensione del linguaggio, il più grave dei tre: è come se le parole faticassero ad «entrare» oltre che a «uscire». 
Presenta questo tipo di ostacoli nella comunicazione il tre per cento degli italianiSu questi disturbi bisogna intervenire precocemente, io lavoro con i i bambini già a partire dai 36 mesi. Ma se si è sospettato, e poi diagnosticato, un disturbo anche di comprensione del linguaggio si può intervenire già a due anni». 
Ma non si dice sempre che ogni bambino ha i suoi tempi: c’è chi è precoce, o tardivo nel camminare, chi nel parlare...«Anche se c’è molta variabilità, il linguaggio è un percorso che ha le sue tappe. 
A 6 - 9 mesi la sua comunicazione è fatta di gesti, vocalizzi, sillabe ripetute, del tipo pa-pa-pa, ta-ta, ma-ma. 
Tra i 9 e i 12 mesi compaiono sequenze di più sillabe, con consonanti e vocali diverse, simili a parole, accompagnate dal gesto di indicare, per comunicare ciò che si vuole. E via via si arriva allo sviluppo di un vocabolario, attraverso le esperienze condivise nell’ambiente familiare, a 14 - 16 mesi; contemporaneamente il bambino impara a capire il significato delle parole, tanto è vero che agisce in modo adeguato in risposta semplici comandi. 
Tra i 16 e i 20 mesi c’è il vero boom del linguaggio: il vocabolario, che intorno a quell’età è di circa 50 parole, molto velocemente si arricchisce e compaiono le prime combinazioni». 
Scandire così puntualmente le tappe di sviluppo del linguaggio non rischia di suscitare allarmismi eccessivi per eventuali “ritardi”? «Intendiamoci, queste tappe non sono scolpite nella pietra, ma sono utili indicatori per individuare chi è in difficoltà. Ci sono appunto i parlatori tardivi, bambini che a due, tre anni quasi non spiccicano parole. 
Ma se dopo qualche mese del primo anno di asilo - che dà una spinta forte alla socializzazione e quindi dovrebbe spronare a parlare - non cambia nulla, allora bisogna intervenire. E non perché noi genitori Test specifici consentono di valutare se la situazione è gravefatichiamo ad accettare bambini con minori abilità rispetto ai coetanei, ma perché per il bambino non riuscire a esprimersi come vorrebbe è una sofferenza. 
Una sofferenza che può portare a rinchiudersi in se stessi, rinunciando quasi a comunicare, o che può tradursi in rabbia e quindi in comportamenti oppositivi, provocatori. Senza contare che, se chi ha un disturbo del linguaggio non viene seguito, quando andrà a scuola avrà nel 30-40 per cento dei casi, la probabilità di sviluppare anche un disturbo specifico dell’apprendimento, come la dislessia». 
Una volta persuasi dell’urgenza di un intervento, cosa possono fare concretamente i genitori per far superare quelle difficoltà ai loro bambini ?«Moltissimo. Infatti, quando il problema riguarda bimbi molto piccoli lavoriamo più sui genitori che sui figli. 
I genitori debbono imparare a diventare “facilitatori” del linguaggio, e noi spieghiamo come farlo». 
E come? «Premetto che ogni bambino segue un percorso diverso, perché test specifici ci consentono di individuare la gravità e la pervasività delle difficoltà, che possono riguardare: la fonologia (per esempio: tatoleto per fazzoletto, sakola per scatola); il lessico (con la semplificazione delle parole, nana per banana, ane per cane); la morfologia (per esempio, li bambini, la luva per l’uva); lasintassi (mettere i verbi all’infinito: io bere acqua, io mangio no), oppure tutte le quattro aree. «Chiarito tutto questo , arrivo ai genitori: noi li aiutiamo a diventare allenatori del bambino. 
Niente di strano o di complicato: è quello che molti genitori fanno già, ma che va semplicemente fatto con più attenzione e più pazienza. 
E quindi, attenzione all’ambiente: rumore e luci forti sono da evitare; quando si deve parlare, stare comodi e guardare il bambino negli occhi; rispettare i turni comunicativi; non far fretta al piccolo, non incalzarlo con continue domande; usare anche la mimica e gesti; mai fingere di aver capito quello che in realtà non si è compreso, si deve piuttosto guidare il bambino a riformulare il messaggio. 
E per finire: non “bamboleggiate”, usate un linguaggio adatto all’età del bambino. E usate i CD che propongono esercizi divertenti per aiutare i bambini imparare a parlare, rimanendo sempre vicini e con loro». 
E il logopedista che cosa fa direttamente con il bambino? 
«Il logopedista prima di ogni intervento esegue una valutazione e fa un bilancio di tutte le competenze necessarie a sviluppare un profilo comunicativo-linguistico adeguato. Solo dopo si stabilisce un programma riabilitativo con obiettivi di lungo e medio termine da raggiungere attraverso attività ambulatoriali e domiciliari se serve un potenziamento e un rinforzo. 
Le attività sono adatte all’età, quasi sempre si tratta attività ludiche, giochi di ruolo, con utilizzo di giocattoli, libri, video, registrazioni e drammatizzazioni. Il lavoro può essere individuale o a piccoli gruppi».In quali tempi ci si può aspettare un miglioramento? 
«Il tempo di programma varia dai sei ai 12 mesi, con possibilità di ripetere il trattamento a seconda della gravità».


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Fonte:http://www.corriere.it/salute/pediatria/14_marzo_14/disturbi-linguaggio-come-aiutare-piccoli-poche-parole-ef8d49a8-ab64-11e3-a415-108350ae7b5e.shtml